Questo articolo è un omaggio ad un divulgatore scomparso di recente e molto amato dal pubblico: Philippe Daverio.
E’ stato non solo l’autore di un programma televisivo molto famoso, Passepartout, ma anche autore prolifico di numerosi articoli e libri.
Oggi per rendergli omaggio ho pensato di presentarvi una delle sue opere: L’arte di guardare l’arte.
Il titolo mi piace davvero moltissimo, ed è una raccolta di articoli da lui pubblicati sulla rivista Artedossier.
Infatti Philippe Daverio non ci presenta mai l’arte in maniera didascalica e supera quelle che sono le categorie convenzionali utilizzare per descrivere l’arte. Mi sento molto vicina a questo approccio ed infatti anche con Salsadarte cerco sempre di trasmettere dei punti di vista insoliti, utilizzando appunto dei passepartout che possono essere la mitologia o la società.
L’arte come successione lineare?
A scuola spesso l’arte ci viene presentata come una successione, una progressione in cui ciò che viene dopo è necessariamente migliore di ciò che viene prima, ma questa è una visione un po’ semplificata e poco realistica della realtà.
Ogni epoca produce un’arte che ne riflette i valori, le necessità od anche semplicemente il gusto estetico che per essere moderno deve necessariamente distinguersi da ciò che viene prima.
Infatti non dimentichiamo che ciascuno vive la propria modernità, ognuno è moderno della propria epoca; ciò che non cambia è ciò che consideriamo classico, che appartiene all’epoca greca o romana.
Nel primo capitolo di questo libro Daverio trova un filo rosso del classicismo partendo da Petrarca il quale sosteneva che “se il mondo nostro non avesse avuto la sfortuna della conversione politica di Costantino al cattolicesimo, avremmo avuto ancora la gioia di vivere ancora negli equlibri perfetti dell’antichità Greco-Latina e non saremmo stati costretti a vedere ovunque le brutture del gotico“.
Sarà proprio questo pensiero a svilupparsi e portare dall’umanesimo al rinascimento.
Contrapposizioni …
Ma mentre siamo abituati a contrapporte il classicismo ed il rinascimento con questo stile volumetrico, spaziale alla bidimensionalità bizantina, a quello stile piatto e ieratico, Philippe Daverio trova una contrapposizione molto più sottile ed interessante.
Trova infatti un secondo filo rosso partendo da Cimabue che definisce addirittura, in maniera irriverente, cubista.
Il filo che passa per Giotto che è il primo a dipingere nell’arte occidentale, il dolore umano e giunge sotteraneo fino al barocco.
“Per fortuna nostra Giotto ha vinto sul Petrarca, la lacrima ed il sentimento sono apparsi sul viso e la pittura barocca, dopo aver abolito le perfezioni rinascimentali ha potuto esaltare i dolori ed i patimenti dei santi, delle genti e della guerra.“
Come vedete le categorie tradizionali sono stravolte e comprese nella loro complessità.
La parola “classico”
Alla parola Classico è dedicato un’altro capitolo di questo libro che si chiama appunto “La parola classico: un eterno ritorno”.
Qui Daverio ci spiega che questo termine deriva dal latino “classicus” nel senso di appartenente alla classe prima.
Quando nasce questa parola, nel II secolo dopo Cristo, già si fa riferimento ad un passato idealizzato e perfetto.
La storia dell’arte ci ha proposto moltissime volte delle rivisitazioni del classicismo: classicismo, neoclassicismo, eccetera, ma ciò che Philippe Daverio mette in evidenza è che ogni volta c’è una nuova interpretazione ed una nuova classicità che viene proposta.
Questo accade in base a quale riferimento si prende a modello, a quale scoperta archeologica sta influenzando il gusto estetico di una certa epoca.
Per esempio il classicismo rinascimentale del ‘500 si ispira molto a sculture ellenistiche appena scoperte come quella del Laooconte e il ‘700 si ispira ai nuovissimi scavi di pompei.
Addirittura nel ‘900, in modo molto inaspettato, si può notare l’influenza della scoperta della città greca di Olimpia nell’Art Deco ed in quella che è considerata la scultura pre-fascista.
“Ogni porta aperta sulla conoscenza storica apre un classicismo sui-generis.“
Questi fili conduttori invisibili sono davvero la specialità di Philippe Daverio, che trova punti di osservazione insoliti ed accostamenti così inaspettati e bizzarri da essere addirittura dissacranti.
Il vocabolario delle meraviglie
Nel capitolo “Il vocabolario delle meraviglie” accosta addirittura la Wunderkammer a Wonder Woman.
Per chi non lo sapesse le wunderkammer erano dei gabinetti delle meraviglie, ovvero delle stanze dove dei nobili, specialmente nel ‘600 raccoglievano tutto ciò che era considerato bizzarro e meraviglioso.
In qualche modo sono dei proto-musei.
Per esempio ci mettevano delle uova di struzzo magari con la montatura d’oro, dei frammenti di statue antiche o dei denti di narvalo che si consideravano essere il corno dell’unicorno.
E Wonder Woman… beh è questa qui.
Per Daverio sono entrambi i risultati di una sensibilità germanica poi passata nella cultura anglosassone verso il mondo della meraviglia e della fantasia, che si contrappongono ad una sensibilità matematica rigorosa e solare del mediterraneo.
“La wunderkammer non chiede certezze, ma narrazioni, quindi da un lato abbiamo gli elfi, i Bosch, Max Ernst, Goethe, dall’altra Pitagora, Piero della Francesca, Picasso, Morandi.”
La sensibilità nordica: fantasiosa
La sensibilità mediterranea: razionale
Come vedete in tutti questi fili rossi, in queste contraddizioni inaspettate riusciamo a cogliere l’arte da un punto di vista davvero diverso.
Guardare l’arte…
Guardare l’arte non è solo un godimento estetico, oppuer dire che quest’opera mi piace o non mi piace, ma non è nemmeno un elenco infinito dettegli come possono essere l’artista, l’epoca, il committente o informazioni storiche da snocciolare.
È qualcosa di più, guardare l’arte è come entrare in una macchina del tempo, è utilizzare un traduttore universale verso lingue che altrimenti avremmo perso.
E’ come cogliere la psicologia delle società del passato che altrimenti sarebbe scomparsa.
Guardare l’arte è davvero… un’arte a sua volta.
Grazie Philippe, ci mancherai.